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Calcio come strumento educativo. Modello ancora possibile?

Ragioniamo assieme: quali sono le potenzialità educative di uno sport al giorno d'oggi?

Educare attraverso lo sport. L'impresa è ancora possibile. C'è per fortuna, chi ancora ci crede. Provarci è un imperativo categorico: ne va del futuro delle nuove generazioni. Ma quella che una volta era un'attività consolante, un diversivo per gli stessi educatori, oggi è diventata una vera e propria missione, tante sono le difficoltà, le problematiche, i piccoli grandi disagi di un mondo giovanile sempre più privo di punti di riferimento. Ragioniamo sul seguente quesito: dove stanno le possibilità educative attraverso lo sport, il calcio in primis, sempre più fucina di messaggi negativi?

Cominciamo l'analisi da un dato di fatto. L'impero, e l'epopea, perchè di epopea parliamo, degli oratori, è ormai giunto al capolinea. A dirlo ci piange il cuore. Purtroppo però, è così. L'incedere del tempo non si ferma. Cambiano le abitudini, gli svaghi, i concetti di divertimento. Se una volta si iniziava a giocare in modo spontaneo, quasi per istinto, oggi la pratica di uno sport è spesso figlia di un'imposizione o di una tendenza da seguire. Sono troppi gli svaghi perchè il ragazzino trovi da solo la voglia di uscire di casa e di inventarsi un gioco. Che fare? Andiamo per gradi: rivolgiamo con nostalgia lo sguardo al passato. La digressione è necessaria per affrontare il problema in modo intelligente e consapevole.

C'era un tempo in cui lo sport era l'unica valvola di sfogo. Con le scarpe nuove o con quelle rotte, col freddo o con il solleone che brucia in cielo, l'importante era una cosa sola: trovare uno spiazzo e qualcuno con cui giocare. Tra i meandri dei campetti e degli oratori c'è scritta la poesia più spontanea dello sport. Badate bene: abbiamo scritto sport. Non il calcio in sè e per sè. Quelle ore passate a correre sono i ricordi più belli di un sacco di generazioni. Il gioco in compagnia era l'unico diversivo: chi ha il piacere di ricordare certi momenti, certi pomeriggi infiniti, può confermare col sorriso che solo chi può navigare con un certo orgoglio nella memoria può mostrare.

Assieme, quei piccoli sognatori imparavano l'arte povera, ma pur sempre arte, di una disciplina sportiva. Imparavano a correre, a saltare, a rispettarsi, a vivere il gusto dello stare insieme. Perchè è nel gruppo, che si socializza la felicità. Da soli non si ottiene niente: la libertà in sè e per sè diventa una maschera o una prigione, se non è riconosciuta dal contesto in cui si vive.

Allora il gioco era già sinonimo di educazione. L'educazione nuda e pura, la più semplice e più vera, quella che arriva dritta dal latino, dal verbo 'educere', "condurre fuori". Dagli animi sorridenti di quei bimbi, lo sport 'conduceva fuori', appunto, l'uomo che albergava in ognuno di loro. Al resto pensavano la famiglia, i genitori, gli amici, la società in senso lato. Là, nel campetto, però, il punto di partenza era ottimo.

Oggi non è più così. Siamo nell'era dove i punti di riferimento non ci sono più, chiunque è ovunque e in nessun posto contemporaneamente: la rete ha velocizzato i rapporti ma ha fatto perdere le coordinate. Qualsiasi cosa è vicina e lontana allo stesso momento. La comunicazione esiste ad ogni livello, ma i rapporti sono coltivati sempre a distanza, attraverso la mediazione della tecnologia. E' una comunicazione sterile, arida, sempre più asciutta di contenuti. Qualcuno ha parlato di 'oralità scritta': si comunica per iscritto battendo nelle chat ciò che si direbbe a voce. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: un progressivo impoverimento della socialità, per certi versi disarmante.

Incerti di persona, incontenibili dietro il pc: mascherati, proseliti degli "Uno, nessuno, centomila" di pirandelliana memoria, i giovani internauti d'oggi vivono, pur inconsciamente, la scissione tra le loro vite reali e le loro vite virtuali. L'intera esistenza è orientata alla cosa più facile, più vicina, più veloce. Prescindendo da disquisizioni sociologiche, ci interessiamo del lato 'atletico', per usare un eufemismo, della questione. La domanda è questa: che funzione ha ancora lo sport, in un modello sociale del genere? Come può lo sport attrarre le nuove generazioni?

Difficile dare una risposta univoca. Le ore all'aria aperta, ormai, sono ridotte al lumicino. La pratica di un'attività sportiva non è più il naturale soddisfacimento di un'esigenza fisica e di una necessità di sfogo. Perchè gli svaghi sono ovunque, spesso più comodi e meno faticosi di mettersi a correre. Chi inizia uno sport parte per stare con gli amici, perchè fa bene, perchè lo vogliono i genitori, perchè è una tendenza comune. La fiammella che scalda il cuore dello sportivo non c'è più. Non si accende nessuna miccia, forse perchè la miccia non c'è nemmeno.

Tutto perduto? Non credo. La voglia di mettersi in gioco c'è sempre. Sono gli stimoli che vanno cambiati. Non basta più mettere un pallone al centro di un gruppo di bimbi per scatenare la loro gioia. Vanno stuzzicati, amorevolmente provocati. Come a scuola: pensateci, chi è che ha voglia di studiare? Eppure tutti, anzi, siamo sinceri, quasi tutti, studiano. Chi più, chi meno, ma prima o dopo tocca a tutti. Lo sport appassiona ancora perchè è sinonimo di affrancamento, di libertà, di autocoscienza delle proprie doti. Dovremmo insegnare cos'è il piacere di giocare all'aria aperta, di corsa, senza pensieri. Non è passatismo: è voglia di prendere un'usanza di ieri per attualizzarla oggi. Nuovi stimoli per nuovi sorrisi. Va trasmessa positività, solo così si crea passione in un mondo centrifugo, dove l'attenzione tende sempre a troppe cose per non focalizzarsi su nessuna. A scuola, come negli sport, il compito degli educatori è di importanza incredibile. Non diamoci per vinti e non bolliamo come inappetenti le nuove generazioni. Non sono peggiori, sono solo diverse. Adeguiamoci e facciamole  crescere.

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  Scritto da ZZZ ZZZ il 13/11/2014
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