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Edizione provinciale di Belluno


Calcio, filosofia e letteratura: sicuri che il triangolo non regga?

Fossero giocatori, intellettuali e filosofi in che ruolo sarebbero?

Calcio e... filosofia. Pallone e... letteratura. Binomi azzardati? Forse. O forse no. Azzardiamo un confronto, tentar non nuoce. Stimoliamo la curiosità: può essere interessante, magari divertente. Il calcio è uno sport, un gioco, un'esperienza, una condizione dell'animo umano. E' uno e molteplice, come i significati che lo colorano. E' impegnativo, ma comprensibile. E' pieno di vizi, ma ancor ci appassiona. E' oggettivo e soggettivo, ideale e reale(a volte anche troppo). E' poetico, tragico, comico, letterario, romanzesco, patetico, esagerato. Un fiume in piena, che merita d'esser analizzato. Noi ci proviamo: voi cimentatevi nella lettura. Passo primo: mettiamo insieme l'improbabile triangolo composto da: calcio, letteratura e filosofia. Passo secondo: leggete qui sotto. Un tentativo improbabile? Finite il testo, e poi giudicate. Sarà dura, ma forse un sorriso riusciremo a strapparlo.

Disponiamo il modulo. Restiamo sul classico: 4-4-2, e non si discute. Si parte col ruolo più difficile: dentro l'area, c'è lui, il portiere. Trovargli una sistemazione tra le scuole di pensiero è impresa ardua. Potrebbero andare bene tutte, o quasi. Due autori però, lo interpretano bene. Il primo è Fichte, l'idealista. Io e Non-Io in lotta continua, in una nevrosi lunga novanta interminabili minuti. Tende verso l'assoluto, ma non sa come arrivarci. Uscire o restare in porta? Presa o deviazione? Nella sua solitudine, il portiere non conosce mezze misure: o la gloria o la dannazione. O alfa o omega: o Nietzsche o Kierkegaard. Superomismo da una parte, angoscia e dannazione dall'altra. E non può nemmeno scegliere: la sua sorte, ahilui, è affar anche altrui. Ahi, quant'è dura, la solitudine dei numeri uno!

Passiamo alla difesa: la figura del terzino balza dalla filosofia alla letteratura. Il terzino, destro o sinistro che sia, è il riferimento calcistico di Victor Hugo. Sgroppando sulla fascia, alterna il grottesco al sublime, ciabattando con la dolcezza di un fabbro, o destreggiandosi in lunghe, cavalleresche peregrinazioni all'ombra delle tribune. A volte è imbarazzante, a volte regala spettacolo. In mano ha un copione doppio: a volte li recita entrambi e il risultato è quanto meno discutibile. Ma a noi va bene così: non si può vivere, senza la poetica fatica dei cursori di fascia.

Al loro fianco, troneggiano due figure terrificanti: i difensori centrali. Una volta li chiamavano stopper, e il nome era già una dichiarazione d'intenti. Contrari ad ogni forza per natura, i difensori centrali sono i proseliti dello scetticismo nel terzo millennio. Contro tutto e tutti, colpo su colpo, legnata dopo legnata. Una volta ci aveva provato Hegel a toglierli di mezzo, umiliandoli ne "La fenomenologia dello spirito". Diceva che a forza di negare tutto, avrebbero negato anche il motivo della loro esistenza. Subito sorse qualche interrogativo. Poi qualcuno pensò che Hegel non capiva di calcio, e sono tornati in campo, prepotenti come non mai.

Avanziamo a centrocampo, e sul lato destro c'è lei, l'ala, con il numero 7 sulle spalle. Non è nè attaccante nè difensore, deve creare ma anche rompere il gioco. A volte macina chilometri chiamando la palla, predicando nel deserto. Altre volte semina il panico, crossa al centro... anche quando non c'è nessuno pronto a raccogliere l'invito. Poi, dopo mezzore di erculee fatiche, spossato e triste, corricchia qua e là, scuotendo la testa. Spesso non si sente capito, e cade in una condizione esistenziale di patimento e di incomprensione. L'esterno destro è un po' Montale e un po' Baudelaire, diviso tra il male di vivere(mal di giocare, definiamolo così) e lo "Spleen". Nel dubbio però, lui continua a correre, correre, correre. Un po' come uno stoico, che soffre e rimugina, senza darlo a vedere, in attesa della redenzione. Siamo sicuri che anche lui, un giorno, raggiungerà l'agognata beatitudine.

In mezzo al campo operano l'incontrista e il regista. Tanto diversi e tanto uguali, si completano l'un l'altro, aiutandosi a vicenda. Per non sbagliare nella rispettiva definizione, attingiamo da entrambe le nostre fonti di conoscenza e di confronto. L'incontrista è Giovanni Verga, cultore del verismo calcistico più asciutto, senza poesia, senza ricami, senza la gioia di un ghirigoro col pallone. Nel suo concetto di calcio, per una squadra vale la stessa metafora che simboleggia, ne "I Malavoglia", la famiglia di 'Ntoni: il pugno, dove le dita devono essere strettissime tra loro, per far sì che tutto funzioni. Lui, calcisticamente parlando, fa a pungi con tutti. A volte, anche con la sua coscienza, rea di rendersi conto di quanto, alle estremità del corpo, ci siano due piedi di ghisa. Il suo vicino, col numero 10 sulle spalle, è l'esatto opposto. Il regista è Schelling, il suo calcio è arte, figlio di continue ed illuminate intuizioni estetiche. Anche lui cerca l'assoluto, e a volte lo raggiunge. Non per nulla è un artista, specie rara, nel calcio d'oggi. Beati loro, non riesce a tutti, il numero di dipingere anche coi piedi.

Lungo la corsia mancina c'è l'eclettico numero 11. Sulla sua identità non ci sono dubbi: l'esterno sinistro è Gabriele D'Annunzio. Per lui il dribbling è tutto. Dribbla qualunque cosa, avversari e compagni, ciuffi e margherite, a volte persino se stesso. Esteta per eccellenza, vive per la giocata ad effetto, si spende per l'effimero, ricerca il bello fine a se stesso. A volte, per sbaglio, taglia verso il centro dell'area e segna di testa. Ma lui non se ne accorge: ha rischiato di spettinarsi i capelli, e non può permettersi di scomporsi in esultanze, prima di ricomporre quel look perfetto, rovinato da un'improvvida zuccata al pallone.

Infine, resta il reparto d'attacco. Partiamo con la seconda punta. La seconda punta è Dino Campana, il poeta maledetto. Il suo modo di giocare, è la trasposizione calcistica della tematica portante dei "Canti Orfici": un continuo, logorante confronto tra il sogno e la veglia. A volte illumina, a volte scompare nell'anonimato. Spesso regala spunti geniali, altre si addormenta, perdendosi nel vuoto delle difese avversarie. Il ruolo di spalla lo affligge, anche se a volte recita da primattore. Ma non ha il fisico, e si deve accontentare dell'assist, del passaggio filtrante al momento giusto. Purtroppo è duro il destino, nei confronti delle seconde punte.

Infine, troviamo il centravanti. Lui è un Colosso di Rodi, un Bronzo di Riace prestato ai reparti offensivi di certe squadre. Il centravanti è una figura omerica: è Ulisse, in tutto e per tutto. Sempre in viaggio sul fronte d'attacco, vaga alla ricerca del pertugio giusto per tornare ad Itaca. Quando la vede, fastidiosi Proci vestiti da stopper e da portieri tentano di ostacolarlo nella marcia lungo la retta via. Ma loro tornano, sconfiggendoli tutti. E Penelope, santa donna, è sempre là, tesa sulle tribune, pronta a prorompere in scrosci d'applausi per il suo Laertide con le bullonate.

Per completezza, dovremmo descrivere i panchinari: ma ci manca il cuore. Concludiamo dunque con colui che siede in panchina: l'allenatore. L'allenatore non può essere che Dante: da bordo campo, assiste alla Divina Commedia del calcio. In un campionato vede tutti e tre i regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Vorrebbe rimanere nell'ultimo, ma non sempre riesce nell'impresa. Però, la sua Commedia ha una differenza, rispetto a quella dantesca: l'opera che dirige, inginocchiato, col cronometro in mano, dall'angusto spazio dell'area tecnica, dura soltanto dieci mesi. Ogni anno, la dea Eupalla, che l'Alighieri non conobbe, per sua sfortuna, gli concede l'opportunità di rifarsi, di riscrivere la propria Commedia. Par che gli dica, messianica: "Provaci ancora, è un gioco, il Paradiso aspetta tutti, nel calcio". Se non è poesia questa...

Bene, abbiamo finito. Leggete, sorridete di quanto scritto, se riuscite riconoscetevi tra queste righe. Siete ancora sicuri che il triangolo non regga?

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  Scritto da ZZZ ZZZ il 07/10/2014
 

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